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I giorni in Vietnam, come ho già a avuto modo di scrivere qui, mi hanno provata. Tante le difficoltà, tanti i momenti di sconforto. Ho reagito però e alla fine sono riuscita ad arrivare a Saigon, che è stata la mia ultima tappa nel Paese. E Saigon – devo proprio dirlo – mi ha provata ulteriormente, forse ancora più nel profondo.  

Conoscevo la storia del Vietnam già prima di partire. Mi stava molto a cuore tuttavia approfondire alcuni aspetti legati all’ultima guerra. E’ per questa ragione che durante i giorni trascorsi a Saigon mi sono recata al War Remanent Museum e poi al villaggio di Cu Chi, dove certe questioni si sono palesate in tutta la loro crudezza.    

La storia che già conoscevo…

Il 2 settembre 1945 è stata dichiarata l’Indipendenza del Vietnam, che dal 1883 era divenuto protettorato francese e dal 1940 subiva l’occupazione giapponese.

La dichiarazione è sfociata in un conflitto tra il Viet Minh ovvero il gruppo di resistenza di ispirazione comunista fondato e guidato da Ho Chi Minh ed i colonialisti francesi che intendevano imporre nuovamente il loro controllo. Alla fine la questione si è conclusa a favore del Viet Minh, ma solo nel 1954, con l’assedio di Dien Bien Phu.

E così che nel 1955, durante la conferenza di Ginevra, il Paese è stato temporaneamente diviso in due metà, all’altezza del 17° parallelo: il Vietnam del Nord comunista ed il Vietnam del Sud, libero.

Nel 1960 il Viet Minh, più comunemente noto come Viet Cong, ha organizzato una serie di attacchi contro il Vietnam del Sud, sostenuto dagli Stati Uniti. Già nel 1964, il Viet Cong iniziò a penetrare nel Vietnam del Sud e di conseguenza gli Stati Uniti cominciarono ad inviare le prime truppe. Quattro anni più tardi, con l’offensiva del Tet, ci fu una radicale svolta a favore del nord.

Nel frattempo inoltre l’opinione pubblica si stava schierando apertamente contro la guerra, anche a causa dei crimini commessi dai soldati statunitensi nei confronti della popolazione vietnamita. E’ solo in questo scenario che si spiegano gli accordi di Parigi siglati nel 1973, che prevedevano una tregua, il ritiro degli Stati Uniti e il rilascio dei prigionieri di guerra americani.  

La guerra è poi proseguita fino all’aprile del 1975, ormai con due soli protagonisti, il Vietnam del Sud ed il Vietnam del Nord, che alla fine ha avuto la meglio. Conquistata Saigon, i vietnamiti del nord le hanno dato il nome di Ho Chi Minh e nell’anno successivo si sono mossi per portare a termine il processo di riunificazione.

Ristabilita la pace, non sono mancate repressioni nei confronti di chi era legato alla precedente leadership, così come gli arresti e le reclusioni nei cosiddetti campi di rieducazione.    

carro armato palazzo riunificazione saigon

Approfondendo gli aspetti che più mi stavano a cuore…

Il War remanent museum di Saigon…

Credo che un semplice viaggio in Vietnam non possa – per ovvi motivi – dare alcuna illuminazione riguardo a quanto sia accaduto a parte della popolazione vietnamita negli anni dopo la riunificazione. Ed è altrettanto ovvio che non si trovino cenni a proposito di tali fatti al War Remanent Museum di Saigon, così come – credo – in qualsiasi altro museo di storia del Paese.

Mi sono resa conto tuttavia che proprio al War Remanent Museum viene raccontato tanto altro, chiaramente nell’ottica di una certa ideologia (come qualsiasi racconto, si potrebbe obiettare, che è sempre frutto di un punto di vista più o meno evidente).   

Nonostante questo ho continuato a leggere del Vietnam degli anni di cui vi ho appena parlato e di quello di oggi, perché c’è una sezione dedicata anche al presente. In questo senso devo dire che è stato interessante osservare come si racconta un Paese che ancora si definisce Repubblica Socialista, prendendo in considerazione sia il linguaggio dei testi proposti che l’enfasi su alcune idee.  

Un aspetto che mi è subito saltato all’occhio è la quantità di immagini in esposizione. Al piano terra, quelle che più mi hanno colpita si trovano nella sezione dedicata ai movimenti di protesta contro la guerra in Vietnam e di sostegno alla sua causa di indipendenza. Manifesti parte delle campagne (di propaganda) di Stati come la DDR, così come fotografie di uomini e donne nelle piazze (alcune delle quali anche italiane), sono solo due esempi di ciò che è possibile vedere nelle diverse sale.  

Anche le immagini, in quanto frutto di un linguaggio, sono veicolo di ideologie. Una volta salita al primo piano del museo tuttavia mi sono resa conto che di fronte a certe immagini qualsiasi ideologia perde significato e lo perde all’interno di qualsiasi discorso, almeno per me.

Prima ho scritto che Saigon mi ha molto provata. Ecco, mi hanno molto provata le fotografie che ho visto al primo e soprattutto al secondo piano del museo, che difficilmente possono essere piegate agli scopi di un’ideologia e di un discorso appunto, talmente sono cruente. E ciò, credo che valga indipendentemente dal punto di vista dal quale la storia viene raccontata.  

Un soldato che tiene tra le mani la testa decapitata di una donna. Corpi nudi trascinati da un carro armato. Corpi carbonizzati. Corpi mutilati dalle mine. E poi ci sono le foto di bambini affetti da malformazioni tali che risultano difficili persino da immaginare, chiara conseguenza dell’uso di armi chimiche. Queste sono le atroci immagini che continuavano a passarmi davanti agli occhi anche una volta lasciato il museo, quel giorno e nei giorni successivi.  

Il villaggio di Cu Chi…

L’indomani sono andata a Cu Chi, un villaggio che dista una trentina di chilometri da Saigon, noto per il sistema di tunnel sotterranei costruito negli anni quaranta dalla resistenza Viet Minh, che all’epoca era impegnata contro i francesi.

Durante la visita ho immediatamente appreso che la rete di gallerie è stata estesa negli anni sessanta e settanta fino a raggiungere i 250 km e che ha avuto un’importanza strategica anche durante la guerra contro il Vietnam del Sud e gli Stati Uniti.    

Ad un certo punto mi è stata data la possibilità di scendere e di vedere con i miei occhi ciò che era stato costruito laggiù. Per riassumere l’esperienza in una sola parola, direi… Impressionante! E sì che ho avuto accesso ad una sezione aperta ai visitatori e appositamente ampliata!

Sono uscita chiedendomi quanto sono stretti i passaggi originali, perché già quelli in cui sono stata io erano strettissimi. A questo proposito la guida ci ha tenuto a precisare che i vietnamiti sono piccoli e che quindi non facevano alcuna fatica, aggiungendo poi anche che i soldati statunitensi invece, con tutto il loro equipaggiamento, non sarebbero mai riusciti ad entrare.  

Pensavo che al War Remanent Museum di Saigon avevo visto il peggio di ciò che è stata la Guerra in Vietnam e che ormai il Vietnam mi avesse provata abbastanza. Poi invece la guida ha mostrato le trappole che la resistenza Viet Cong aveva creato per i soldati statunitensi, per <<farli soffrire il più possibile>>.

Ad avermi provata, ancora una volta, le parole della guida, che non usava mezzi termini per spiegare il funzionamento di certi meccanismi, per spiegare che con quella specifica trappola <<loro>> (e quindi anche lui che all’epoca probabilmente non era neanche nato!) avrebbero infilzato un soldato statunitense <<come un pollo allo spiedo>>.  

Ho lasciato Cu Chi riflettendo ancora una volta su come il Vietnam si racconta. Le parole della guida nascevano spontanee o erano frutto di un copione? E adesso, francamente, non so quale risposta sia peggiore!

tunnel cu chi vietnam
trappola cu chi vietnam

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”In un’epoca in cui viaggiare è prerogativa di molti, credo che sia ancora possibile percorrere vie sconosciute, rendendole solo nostre: sono convinta infatti che oggi le grandi esplorazioni debbano essere anche e soprattutto interiori.”