Stavo entrando in ostello, quando alle mie spalle è comparsa Anne. Ero stupita di vederla lì e soprattutto di vederla sola…
La sera che sono arrivata a San Cristobal (di cui ho scritto qui), dopo ore e ore di viaggio a bordo di un autobus sgangherato, io, lei ed una sua amica ci siamo incamminate tutte insieme, alla volta di quella che sarebbe stata la nostra sistemazione per la notte.
Il giorno dopo io sono rimasta, contenta del letto in dormitorio che avevo prenotato, mentre loro hanno lasciato la camera doppia che gli era stata offerta, alla ricerca di un’alternativa più alla portata di due giovani backpackers.
Stava di fatto che la sua amica era in viaggio verso il Quebeque perché il fidanzato l’aveva lasciata, che lei era tornata nell’ostello che insieme avevamo raggiunto al nostro arrivo in città, dove nel frattempo si era liberato un posto in camerata, e che il giorno dopo sarebbe partita per il Guatemala, esattamente come me.
Casualmente entrambe eravamo dirette a Panajachel e così, l’indomani mattina, ci siamo ritrovate sullo stesso minivan. Alle sette eravamo pronte. Abbiamo aspettato mezz’ora, tre quarti d’ora, un’ora. Poi, finalmente è arrivato l’autista che ci avrebbe condotte fino al confine, dove ci attendeva un altro mezzo. Siamo state le ultime a salire e a noi, di conseguenza, sono toccati i posti peggiori, davanti.
Man mano che San Cristobal de las Casas si faceva più lontana, la strada che si inerpicava sulle montagne somigliava sempre più ad un sentiero. Anche nei tratti vicini alla frontiera, dove di fatto era praticamente sterrato, i mezzi pesanti andavano e venivano, come gli uomini a cavallo nei loro cappelli da cowboy.

Dopo un mese tra Yucatan e Chiapas avevo deciso dunque di lasciare il Messico. In realtà la mia decisione è arrivata prima del previsto: nei miei progetti rientrava infatti anche una settimana nella capitale, ma una volta in viaggio mi sono resa conto che era davvero troppo fuori rotta.
Iniziavo inoltre a sentire una certa stanchezza e la necessità di fermarmi per un po’. Sono giunta così alla conclusione che raggiungere direttamente il Lago di Atitlan, in Guatemala appunto, fosse la scelta migliore e il giorno della partenza ero davvero felice di sconfinare. E quello sarebbe stato il primo confine che attraversavo a piedi.
Sul lato messicano ha fatto tutto l’autista: ritirati passaporti e denaro, in meno di un quarto d’ora ha espletato le formalità di uscita. Sul lato guatemalteco, che ho raggiunto camminando insieme ad Anne e agli altri passeggeri con cui ho condiviso il viaggio, si è invece trattato di far apporre personalmente un timbro sul passaporto e di pagare l’equivalente di due euro; nessun altra richiesta, nessun controllo.
La frontiera è una terra di nessuno. Un crocevia di gente, presa da traffici più o meno leciti. Chi si offre di cambiare pesos in quetzales trova persino il modo di salire sugli shuttle, con migliaia di banconote tra le mani.
Tutti lì, posteggiati, in procinto di partire, i chicken bus, carichi all’inverosimile, sia dentro che fuori. Tanta gente che rovista nella spazzatura. Cani randagi. Questo è ciò che ho visto, di sfuggita, una volta terminata la trafila presso l’ufficio immigrazione, mentre salivo sul minivan che mi avrebbe portata a destinazione.
Le montagne del Guatemala si sono subito rivelate di una bellezza sublime, forse più aspre di quelle del Chiapas, forse semplicemente rese più severe dal cielo tetro di quel momento, il momento del mio passaggio.
Dopo tante ore di viaggio, quando finalmente mi è apparso il lago (di cui ho scritto qui), sgombro da nuvole, cinto dai vulcani, con quel sole rosso che stava tramontando, ho pensato che non avrei potuto aspettarmi nulla di più meraviglioso…

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