Oggi Potosí (Bolivia) appare decadente e un po’ abbandonata a se stessa, soprattutto se si guarda alla periferia, costellata di abitazioni estremamente precarie. Un tempo, tuttavia, è stata addirittura insignita del titolo di Villa Imperial, tanto era opulenta. Di quell’epoca rimane tutto e niente. Gli edifici risalenti all’Impero spagnolo, con le facciate di colori sgargianti ma sbiaditi rispetto ad una volta e le mura che ogni giorno si sgretolano un po’ di più. E il Cerro Rico, ricco appunto di giacimenti d’argento, ormai quasi del tutto esauriti.

Lì, nel sud-ovest della Bolivia, Potosí, mi ha accolta dopo un viaggio di poche ore, affrontato a bordo del primo autobus del mattino in partenza da Uyuni, in compagnia di tante cholitas: orgogliosamente avvolte nelle tipiche gonne multistrato e l’immancabile aguayo sulle spalle, loro, donne dalle lunghe trecce nere e dagli occhi dello stesso lucente colore, animano il centro storico cittadino, vendendo frutta, verdura e artigianato.
I loro mariti invece, che per lo più sono mineros, continuano a lavorare nel ventre di quella che gli Inca chiamavano SumajOrcko, la montagna bella. Ecco, di bello, quella montagna, non ha più nulla, già dal XVI secolo. E’ infatti divenuta emblema dello sfruttamento e dello sterminio della popolazione locale (e non solo!) ad opera dei conquistadores.
Seppure le circostanze siano molto cambiate, lì dentro si muore ancora. In Bolivia (e non solo a Potosì) mancano infatti alternative per mettere insieme il pranzo con la cena. Oggi, chiaramente, nelle miniere – dove è rimasto essenzialmente stagno – non si adoperano più schiavi, un tempo (im)portati persino dall’Africa. Ci sono però ancora uomini in carne ed ossa, che vi lavorano in condizioni tremende ed inaccettabili, a maggior ragione nel 2019.
La zecca reale non esiste più. Nemmeno il giogo della Corona spagnola. Eppure le cooperative costituite recentemente per gestire il business dell’estrazione non sono state in grado di assicurare dignità e sicurezza a coloro che operano all’interno del Cerro Rico.
Dalla fondazione di Potosì nel 1545 e per almeno due secoli è stata la Ley de la Mita a stabilire che la popolazione non ispanica dovesse lavorare nelle miniere per almeno quattro mesi, sopportando turni di dodici ore, sfiancanti e spesso mortali. Quella stessa legge stabiliva anche il compenso dei mitayos, ma si trattava di una cifra talmente irrisoria da non coprire nemmeno le spese per vitto e alloggio. I mineros finivano dunque in un vortice di debiti impossibili da saldare e restavano schiavi per tutta la loro esistenza, che spesso si spezzava meno di un anno dopo la prima discesa negli stretti cunicoli scavati nella montagna.
Non conosco quale sia l’attuale durata dei turni di lavoro a Potosì. Dubito tuttavia che esista una severa normativa in materia a Potosí e più in generale in Bolivia. Probabilmente i minatori lavorano lo stesso numero di ore di qualche secolo fa. Il loro salario dipende infatti dalla quantità di stagno che estraggono e che poi, tramite le cooperative, rivendono alle multinazionali, ad un prezzo neanche lontanamente paragonabile a quello che avrebbe l’argento, se solo non fosse stato saccheggiato dai colonizzatori spagnoli. La mancanza di tecnologie moderne non ha poi certamente ridotto tutti i rischi per la salute e gli incidenti correlati all’attività estrattiva. La speranza di vita degli uomini di Potosí che lavorano in miniera (ovvero il 40% della popolazione maschile della città) non supera infatti i quarant’anni.



Quando sono arrivata in Bolivia ed in particolare a Potosí avevo le idee chiare. Volevo saperne di più su tutta questa storia, di cui parla anche Eduardo Galeano nel libro Le vene aperte dell’America Latina.
Sapevo anche tuttavia che mai e poi mai avrei partecipato ad uno di quei tour offerti dalle agenzie della città, spesso accompagnati da ex-minatori. E’ vero che è forse l’unico modo per comprendere veramente quale sia la situazione di chi lavora lì dentro. Mi sentivo male però alla sola idea di entrare nella pancia del Cerro Rico e sfilare, magari con la mia bella fotocamera, tra tutte le persone che lì si guadagnano da vivere, molto duramente, patendo la mancanza di ossigeno, respirando gas tossici ed esponendo il proprio corpo a temperature estreme.
E poi – per essere ancora più franca – non avevo intenzione di correre alcun rischio. Perché sì, possono esserci crolli ed esplosioni, tanto che è necessario firmare una liberatoria che deresponsabilizza l’operatore a cui ci si affida.
Ognuno, in questo senso, fa le proprie scelte. Io ho fatto la mia e non sono entrata. Non sono entrata in quello che più volte le mie orecchie hanno sentito definire come un vero e proprio inferno, che è lì, ora, ancora. In compenso ho preso parte alla visita guidata – durata un paio d’ore e davvero esaustiva in quanto a dettagli storici e d’attualità – presso la Casa Nacional de la Moneda, l’antica zecca. Oggi quest’ultima ha perso la sua funzione originaria ed è stata trasformata in un museo. Conserva macchinari di varie epoche e oggetti di quel mondo coloniale che è svanito, lasciando miseria e giusto qualche frammento dello sfarzo frutto dell’argento (rubato).
Per farvi un’idea di cosa fosse Potosí dalla metà del XVI fino all’inizio del XIX secolo, pensate al fatto che nel 1650 era ormai divenuta una delle città più grandi al mondo, con i suoi 165.000 abitanti, gli innumerevoli edifici sacri, i palazzi, i teatri e persino delle sale da ballo, in gran parte ornati e arredati con materiali e mobili di pregio. Ecco, è a quell’epoca che è nato il detto Vale un Potosí!, usato per la prima volta da Cervantes nel suo Don Chisciotte de la Mancha per indicare qualcosa dal valore inestimabile, in sostituzione del precedente modo di dire ”Vale un Perù!”.
La quantità di argento spedito in Europa nell’arco di due secoli – che oggi avrebbe potuto creare benessere per la città e l’intera Bolivia – ha arricchito tuttavia unicamente i colonizzatori e di certo non la popolazione locale, che con l’esaurirsi dei giacimenti è stata abbandonata a sé stessa, priva di risorse. Tra l’altro l’improvvisa penuria di argento è stata interpretata dagli Inca come una sorta di castigo divino per aver trafugato Sumaj Orcko, la montagna bella. Questi ultimi erano infatti in grado di estrarre metalli e pietre preziose, ma lo facevano esclusivamente allo scopo di offrirli agli dei.
L’unica consolazione, oggi, è data dal patrimonio architettonico, che gli invasori non hanno potuto imballare e spedire in Europa, prima di andarsene. Tutelato dall’UNESCO dal 1987, mi ha intrattenuta per un paio di giorni. Passeggiando tra le strade cittadine, giusto un po’ affannata perché mi trovavo pur sempre ad oltre 4000m, ho potuto osservare degli interessanti esempi di barocco andino, che coniuga – come è facile intuire – elementi del barocco europeo ad elementi della cultura locale e quindi andina.



L’esempio più eclatante è dato da caratteristiche rappresentazioni della Vergine, che ho ritrovato in diversi luoghi sacri di Potosí. La figura, palesemente riconducibile all’ambito della religione cattolica, assume tuttavia anche aspetti caratteristici della Pacha Mama ovvero della Madre Terra, divinità venerata da diversi gruppi etnici andini. Pensate ad esempio al fatto che il corpo richiama la forma di una montagna e che sullo sfondo compaiono sia il sole che la luna, identificabili rispettivamente con gli dei Inti e Mama Quilla.
Quando toccherà a voi scorrazzare per le vie di Potosí, ricordatevi di passare da Plaza 10 de Noviembre, di dare un’occhiata alla Cattedrale (anche se non rimane quasi nulla dell’edificio originale), alla Torre della Compagnia di Gesù, al Convento di San Francesco e alla Chiesa di San Lorenzo. Ricordate però soprattutto le parole di Carlo V, impresse su uno scudo, che egli stesso avrebbe spedito oltreoceano: <<Sono il ricco Potosí, sono il tesoro del mondo, sono il re dei monti e sono l’invidia dei re>>. E ricordate tutto ciò che celano quelle parole.
Oltre a Potosì, Bolivia…
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Sogno di fare un viaggio in città come questa! Il Sud America mi ha sempre affascinato e ho in programma un viaggio in Bolivia tra un paio d’anni. Sto già iniziando a mettere insieme un itinerario di massima per un viaggio di circa 15 giorni. Vedremo cosa riuscirò a combinare. Intanto leggo il tuo articolo è guardo le tue belle foto!
La Bolivia è davvero eccezionale… Potosí
poi racconta davvero molto del Paese! Ti auguro di partire prestissimo!
Non ero a conoscenza di questa città della Bolivia e della storia delle sue miniere. Articolo interessante.
Grazie Massimo!
Che storia triste quella di Potosì, pensare che ancora nel 209 la gente muore nelle miniere e tutte le ricchezze di un tempo oggi non ci sono più per portare prosperità alle persone del luogo è un colpo al cuore. Chissà come doveva essere bella e ricca quando era ancora la Villa Imperial. Anche se bella, dalle tue foto, lo sembra lo stesso.
Sì, è una storia tristissima quella di Potosì. Chissà se in futuro le cose potranno mai cambiare!
Che bello questo reportage, mi ha immerso in una realtà tanto difficile quanto affascinante e lontana dalle tradizionali rotte turistiche!
Grazie! Spero davvero di essere riuscita a rendere idea della realtà di Potosì!
Grazie per avrmi fatto conoscre questa citta, bellissima e contemporaneamnete difficile.
Grazie a te che hai letto Isabella!
Non sono mai stata in Bolivia, grazie per avermi fatto scoprire uno spaccato di vita di questo pese.
Sono rimasta davvero male leggendo la storia di Potosì, spero davvero che in futuro le cose riescano a cambiare, per quanto sia bello il reportage la realtà è molto difficile
Non ho mai pensato alla Bolivia per un viaggio, però può essere un'idea. Purtroppo il mondo delle miniere è questo ed è sempre stato così.
Maria Claudia purtroppo si tratta di uno spaccato molto difficile…
Sara anche io spero che le cose in futuro possano cambiare, ma ci vorrà sicuramente tanto tempo…
È vero che il mondo delle miniere è difficile, ma credo che a Potosí lo sia ancora di più, per diversi motivi…
Il Sud America è tutto meravigliosa, pericolosa se non si sa dove andare, ma meravigliosa. In particolar modo sono stato in Bolivia lo scorso anno e l'ho trovata incantevole. laguna Colorado e Isla del Sol da visitate assolutamente. Potosi mi manca, ma del Cerro Rico avevo letto molto.
Non ho trovato la Bolivia particolarmente pericolosa Francesco, anche se mi sono trovata ad affrontare un paio di situazioni impreviste, a causa di blocchi stradali ecc… Sono d'accordissimo invece sul fatto che sia meravigliosa! Se hai occasione di tornare non posso che consigliarti di fare un salto anche a Potosì!
La Bolivia è uno dei miei sogni di viaggio. Mi piace leggere di storie di viaggio meno patinate come questa, che dà uno spaccato emotivo e geopolitico più profondo.
Sabrina Barbante
Sabrina quando scrivo cerco sempre di esprimere il mio punto di vista e ciò che provo… Mi piace poi affrontare tematiche che almeno in parte rispecchiano la realtà dei luoghi che visito…
Un mio amico è stato in Bolivia due mesi e mezzo quest'anno e secondo lui ci devo assolutamente andare. Mi ha portato diversi regalini, tra cui una sorta di accessorio che le cholite utilizzano per le trecce. Però non so se mi sentirei pronta per un luogo così forte, anche le foto mi attraggono tanto.
Sara io sono convinta che ogni luogo inizia ad attrarci quando per noi è il momento giusto per viverlo… Questo secondo me vale soprattutto per luoghi – diciamo così – difficili… Vedrai che prima o poi, se vuoi andare in Bolivia, ti sentirai pronta!
la Bolivia è una terra che non conosco direttamente
mi piacerebbe visitarla, credo che abbia fascino
un viaggio impegnativo, che richiede preparazione anche a livello psicologico
Verooo Francesca… Una terra ricca di fascino, dove però bisogna arrivare preparati… Potosì rappresenta l'esempio più evidente in questo senso!
WOW! solo a guardare le immagini si rimane affascinati da questi luoghi, mi piacerebbe davvero tanto fare un viaggio così carico di avventura in luoghi così particolari
Laura, in Bolivia ci sono molti luoghi particolari… Potosì è uno di quei luoghi!