Gli ufficiali, in quelle loro divise verdi e ampie, erano tutti indaffarati: stampavano, ordinavano e compilavano documenti, carta, scartoffie. Io li osservavo dallo sportello ormai da una trentina di minuti ovvero da quando gli avevo consegnato tutto il necessario per ottenere il visto. <<Sono 25$!>>, mi ha detto ad un certo punto uno di loro che, riconsegnandomi il passaporto, mi ha aperto le porte del Paese, la Repubblica Socialista del Vietnam.
Quell’autostrada a cinque corsie per senso di marcia che collega l’aeroporto con il centro di Hanoi mi ha fatto una strana impressione: mi è parsa spaziale, probabilmente perché avevo ancora negli occhi la strada sterrata percorsa solo poche ore prima, per raggiungere l’aeroporto di Luang Prabang, nel vicino Laos. E così anche quel ponte, attraversato poco dopo essere salita in macchina, illuminato in modo tale da conferire al paesaggio urbano un non so che di futuristico.
A centinaia i motorini sfrecciavano, sfrecciavano e sfrecciavano ancora, come sempre, immaginavo. Quella sera però iniziava il capodanno cinese, quindi forse sfrecciavano ancora più veloci. E forse erano anche più carichi del solito: tre o quattro persone sullo stesso mezzo, su alcuni persino piccoli alberi di mandarino, che in molti si accingevano a portare a casa proprio per l’avvento della festività.

Il quartiere vecchio, dove si trovava l’ostello in cui alloggiavo, era un brulichio di gente che andava e veniva tra vicoli e vicoletti nei quali ho potuto respirare ancora il profumo dell’Asia di un tempo, oltre agli intensi odori dello street food.
Tutti si stavano preparando alla mezzanotte, poiché in quell’istante i fuochi d’artificio avrebbero letteralmente illuminato la città. Personalmente appena li ho scorti sono rimasta senza parole ed ho inteso quello spettacolo, che ho potuto ammirare da un terrazzo, come un caloroso benvenuto, nonostante tutto ciò che era già successo prima che io arrivassi lassù (che puoi leggere in Disavventure vietnamite).
Il giorno seguente la città si era completamente spenta. Per strada nessun ambulante. Gran parte dei negozi erano chiusi. La gente se ne stava a casa, in famiglia: molti infatti festeggiavano con i loro cari all’interno di locali normalmente adibiti ad uso commerciale, ma che in quell’occasione erano stati trasformati in sale da pranzo. Molti erano anche coloro che si recavano nei luoghi di culto presenti ad Hanoi, per pregare e portare offerte alle divinità e agli antenati.
Quella mattina io invece ho raggiunto le sponde del lago Hoan Kiem ovvero il Lago della spada, che prende il proprio nome da una leggenda locale, i cui protagonisti sono un imperatore impegnato a combattere l’esercito cinese ed una tartaruga mandata da una divinità per consegnare una spada magica, grazie alla quale la guerra in atto sarebbe terminata a favore dei vietnamiti.
Lo specchio d’acqua domina il centro cittadino, creando una sorta di oasi nel caos, un caos apparentemente imploso nei giorni in cui si stava entrando nell’anno della scimmia. Sul lago, solo sul ponte rosso, quello che porta sull’Isola di Giada e al Tempio Ngoc Son, una gran folla.
Poi persino il quartiere vecchio, con le sue mille viuzze, era piuttosto sonnolento: solo all’imbrunire infatti qualche bar, di quelli tipici, con gli sgabellini sul marciapiede, ha aperto, oltre a qualche ristorante come quello in cui ho deciso di cenare con il solito fried rise with vegetable, che purtroppo nel menù offriva anche fried dog meat ovvero carne di cane fritta.

Il secondo giorno che ho trascorso ad Hanoi ho deciso che sarei andata al Mausoleo di Ho Chi Minh. Volevo infatti vedere la salma della personalità forse più importante del Paese, in quanto guida del movimento per l’Indipendenza dalla Francia prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, nonché leader di quello che è stato il Vietnam del Nord fino al 1969. Ho sempre reputato un po’ macabra questa cosa di imbalsamare – diciamo così – il corpo di figure che hanno determinato le sorti della storia del Novecento ma, visto il mio interesse per la storia, non ho proprio potuto sottrarmi.
Per entrare al Mausoleo la fila non era particolarmente lunga, ma tutta la procedure per garantire la sicurezza del luogo mi è parsa un po’ contorta. Mi è infatti stato chiesto di consegnare il mio zainetto, estraendo macchina fotografica e cellulare, che ho dovuto inserire in un’apposita custodia da portare ad un’altro banco, non propriamente dietro l’angolo.
Una volta dentro, ho subito notato il silenzio, che non poteva che essere reverenziale. Tutti si muovevano lenti, lungo il percorso stabilito, con il capo chino e lo sguardo rivolto verso di lui, Ho Chi Minh. Devo dire che mi ha fatto una certa impressione, anche se mi è sembrato quasi finto, con quel volto che ormai sembra una maschera di cera, probabilmente a causa dei ritocchi per cui periodicamente viene spedito in Russia.

Dopo pranzo mi ci voleva qualcosa di un po’ più soft. Andando alla cittadella, non potevo fare scelta migliore: nonostante ciò che ha rappresentato per oltre un millennio, come centro del potere militare vietnamita, il luogo continua a raccontare il passato ponendosi però come contesto in cui trovare un po’ di pace nel gran trambusto urbano.
Ad Hanoi sono poi rimasta ancora un giorno. Ne ho approfittato per andare al Tempio della Letteratura – che una volta era dedicato a Confucio e poi è stato convertito in centro d’istruzione per i mandarini – e in qualche altro luogo degno di nota, ma soprattutto ho cercato di vivere un po’ la città, che a dire la verità mi ha detto meno di quanto mi aspettassi.
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Hanoi è la metropoli asiatica che ho amato di più tra quelle che ho visto fino ad ora.
Caotica, rumorosa eppure accogliente, con dei luoghi di spiritualità e pace che non ci si immagina. Ci tornerei immediatamente.
A me ha fatto un impressione un po' diversa Elisa, ma si sa, in viaggio – come nella vita – tutto è soggettivo…