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Il mio zaino era lì, pronto, davanti alla porta. Ancora in pigiama, lo guardavo e immaginavo quello che sarebbero state le successive ventiquattro ore. Dovevo partire per l’altro capo del mondo, ma da giorni mi trascinavo una brutta influenza. Ero pallida, avevo gli occhi infossati, stavo in piedi a fatica e tra l’altro non avevo dormito nemmeno un secondo.

Per un momento ho pensato ad un segno del destino, che – ancora una volta – sembrava volermi impedire di andare. Sono arrivata addirittura a pensare che davvero non fosse il caso di partire. Pensieri di questo genere a volte mi sfiorano, ma fortunatamente il mio lato più razionale finisce sempre per avere la meglio ed io riesco a vedere le situazioni per quello che sono ovvero semplici coincidenze.

Ebbene, dopo dodici ore di volo ed uno scalo tecnico a Cuba, mi sono ritrovata a Cancun! Se ce l’ho fatta – a dire la verità – è soprattutto merito di Gianluca, che sapeva quanto mi sarebbe costato rimandare ancora una volta, anche e soprattutto in termini emotivi: se quella mattina non fosse partito con me, se non mi avesse spronata, nelle condizioni in cui ero, il desiderio di buttarmi per due mesi in quell’esperienza tutta centro americana, non sarebbe stato sufficiente.

Con le formalità di ingresso fortunatamente è filato tutto liscio: non ci è stata chiesta nessuna prova di uscita dal Paese, né alcuna informazione riguardo ai pernottamenti. Solo: << Turismo? Quanti giorni?>>. Abbiamo persino scampato il controllo degli zaini, che avviene in modo casuale, a seconda del colore della luce (verde o rossa) che si accende dopo che si preme un pulsante posto lì ad hoc.   

Per raggiungere quella che sarebbe stata la nostra sistemazione per la notte ci siamo affidati ad una compagnia che gestisce colectivos ovvero dei minivan che fungono da taxi condivisi: arrivando in tarda serata, farci lasciare proprio davanti alla porta dell’ostello che avevamo prenotato ci sembrava infatti la cosa migliore.   

Eravamo gli unici ad aver scelto un alloggio nella cosiddetta Down Town di Cancun. Ci è dunque toccato un tour by night della Zona Hotelera, quella dove sorgono i resort e dove erano dirette tutte le persone partite con noi. Una bella superstrada. Tante palme. Tante strutture, tutte uguali, addobbate per il natale che era alle porte. A primo impatto ho avuto la sensazione di non essere in Messico, ma in qualche località costiera degli States ed effettivamente Cancun è nota anche come Gringolandia ovvero come il parco giochi degli americani.  

Finalmente era arrivato il nostro turno e già ci vedevamo nella nostra camera. L’autista però non aveva idea di dove dovesse portarci. Gli abbiamo indicato l’ostello sulla cartina, ma lui continuava a guidare tutt’intorno all’isolato. Due, tre, quattro giri e poi ha iniziato a ripetere: <<No hay hotel, amigo! No hay hotel, amigo!>>. Ci ha quindi letteralmente scaricati in mezzo alla strada, dicendoci che doveva assolutamente tornare in aeroporto.

L’ostello alla fine – o meglio due minuti e 150 m più avanti – lo abbiamo trovato da soli! Quello che si dice un buon inizio… Non credete anche voi?

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”In un’epoca in cui viaggiare è prerogativa di molti, credo che sia ancora possibile percorrere vie sconosciute, rendendole solo nostre: sono convinta infatti che oggi le grandi esplorazioni debbano essere anche e soprattutto interiori.”