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La strada era davvero da brividi. Curve, curve e ancora curve. Buche a non finire, di quelle che ti fanno saltare, ma che il più delle volte preannunciano scenari mozzafiato. In quel momento stavo lasciando il Lugu Hu, che è uno dei luoghi che più mi hanno tolto il fiato durante il mio viaggio in Cina e di cui potete leggere qui. Il paesaggio in sé e per sé certamente valeva il percorso: alte vette e villaggi dove il tempo pare essersi fermato ovvero il genere di realtà che prediligo.  

Era Lijiang la cittadina che avevo scelto come meta, che però col senno di poi posso dire non meritasse la minima sosta. Cinque/sei ore di tragitto per arrivare in quella che è – non voglio usare mezzi termini – un bel parco a tema ovvero pura finzione, così come i vicini villaggi di Baisha e Shuhe. Da quelle parti ho comunque trascorso tre giorni, poi sono scappata e qui vi racconto il perché.  

C’è stata dunque una breve sosta nella Gola del salto della tigre, a cui non ho dovuto rinunciare, nonostante inizialmente avessi qualche perplessità; al tradizionale percorso, che prevede ben due giorni di cammino, ho infatti trovato un’alternativa meno impegnativa e senz’altro più adatta a me, che stavo viaggiando da sola. Se vi interessa, ne parlo qui.  

Sono quindi giunta finalmente a Zhongdian, oggi più comunemente nota come Shangri-la. Ero davvero incuriosita dalla località, alla quale da qualche anno a questa parte è stato attribuito appunto un nuovo appellativo, anche se temevo di potermi nuovamente trovare di fronte ad una realtà costruita e priva di fondamenta storiche ed antropologiche.

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Shangri-la è una località alla quale lo scrittore inglese James Hilton fa riferimento nel suo libro Orizzonte Perduto, pubblicato nel 1933. Esiste persino una trasposizione cinematografica del romanzo, messa in scena da Frank Capra solo quattro anni dopo l’uscita del libro, che ha ottenuto diversi riconoscimenti a livello internazionale.

Nel 1997 qualcuno ha affermato – solo dopo attente verifiche (!!!) – che Shangri-la si troverebbe in Cina, nella provincia dello Yunnan e più specificamente nel distretto di Dequin. Le ricerche condotte avrebbero addirittura permesso di identificare una località ben specifica: come vi dicevo, Zhongdian.

Le autorità cinesi hanno accolto con favore quella che è stata comunicata come una scoperta sensazionale, nonostante le pagine in cui si parla di Shangri-la siano palesemente frutto della fantasia dell’autore, che ha inventato una storia, dei personaggi e anche un luogo: in fondo però era un ottimo modo per attrarre visitatori da ogni parte del Paese e sviluppare attività turistiche dalle quali trarre profitto.

Come vi ho già detto, temevo di trovarmi di fronte a quel genere di realtà che cerco di sfuggire, nello stile di Lijiang. Eppure il caso di Zhongdian – o forse ormai dovrei chiamarla Shangri-là? – mi interessava e volevo capire fino a che punto rappresentasse una strategia di marketing.

Il minivan che mi ha portata a Shangri-la è giunto a destinazione poco prima del tramonto. Con me c’era una ragazza cinese, insieme alla qualche avevo trascorso la giornata nella Gola del salto della Tigre. Appena arrivat, ha voluto a tutti i costi aiutarmi a raggiungere il mio ostello ed ha persino chiamato la struttura chiedendo di mandare qualcuno che mi facesse strada.

Solo cinque minuti dopo è arrivato un ragazzo che mi ha indicato il percorso. La via pedonale sulla quale ci siamo incamminati era in restauro, insomma un cantiere aperto, a quanto pare ”perché non era uguale alle altre vie del centro storico”. Ed io che pensavo che la situazione fosse tale a causa dell’incendio scoppiato in città nel gennaio 2014. No, ”hanno ricostruito tutto immediatamente e adesso stanno ricostruendo di nuovo, senza che ce ne sia realmente bisogno, non solo una delle due vie principali, ma anche il vicolo sul quale si affaccia l’ostello”: queste le parole del gestore della struttura dove ho allogiato.

Aperto il cancello, mi sono corsi in contro quattro bellissimi cuccioli, dei labrador probabilmente. Un’accoglienza speciale, direi. Tra l’altro, visto che anche in quella circostanza ero l’unica ospite, mi hanno dato una camera doppia, anziché un letto in camerata, a soli 4 Euro! Poteva andarmi meglio di così?!

Posato lo zaino, sono uscita per cenare. Ho scelto il ristorante più vicino, gestito da un francese che ha sposato una ragazza del posto. Cosa potevo mangiare se non un bel hamburger con carne di yak e patatine fritte? Ovviamente anche qualcosa di caldo, perché la temperatura stava scendendo parecchio: la prima cosa che mi hanno portato è stato un té zenzero e miele, che ho sorseggiato lentamente, di fronte ad una bellissima stufa a legna che scaldava il locale.

Ho scoperto solo una volta tornata in camera che neanche in ostello c’era il riscaldamento e che dovevo accontentarmi di due piumoni. Meno male che avevo anche il sacco a pelo, altrimenti sarei morta congelata!

Avevo proprio sottovalutato la questione prima di partire: anche sul Lugu Hu, dove però faceva un po’ meno freddo, così come nei parchi del nord del Sichuan mancava il riscaldamento, ma io non ho proprio pensato alla cosa come ad un problema.

Non ho potuto non immaginare quale poteva essere la situazione anche solo un mese dopo: già a fine ottobre le temperature erano piuttosto rigide, soprattutto durante la notte; se avessi programmato il mio viaggio al contrario, ammesso che fossi riuscita ad arrivare,  probabilmente non avrei scampato un bella tempesta di neve, che poi può anche avere il suo fascino, se si è attrezzati!

Tendo sempre a svegliarmi presto quando sono in viaggio. Quel giorno però non ce la facevo proprio ad alzarmi: ero letteralmente indolenzita dal freddo e avevo paura di sentire ancora più freddo se avessi abbandonato il letto! <<Adesso mi alzo! Sì, adesso mi alzo!>>, continuavo a dire tra me e me. Ci ho messo circa un’ora, solo per mettermi in piedi.

Canottiera, maglietta a maniche lunghe, felpa e giubbotto non bastavano però a riparami dalle temperature mattutine di Shangri-la. Sono uscita, ma ho subito sentito la necessità di entrare in un ristornate per fare colazione, con qualcosa che potesse scaldarmi. Ecco, è stata la mia occasione per provare il butter tea, accompagnato da una torta locale! Impressioni? Una volta nella vita credo sia sufficiente! Vi dico solo che la cosa a cui più si avvicina è il burro fuso!

Non appena ho scorto il sole un po’ più alto, mi sono incamminata: volevo addentrarmi del Parco Guishan per visitare l’omonimo tempio e poi dirigermi  verso il Tempio dei Cento Polli; per ultimo, nel pomeriggio, avrei invece raggiunto il Ganden Sumtseling Gompa, monastero tibetano risalente ad oltre 300 anni fa, che si trova qualche chilometro fuori città, con i suoi 600 monaci.

Ruota di preghiera, Shangri-la – Cina
Ruota di preghiera, Shangri-la – Cina

Considerando ciò che avevo letto di Shangri-là e ciò che avevo visto fin lì nello Yunnan, non avevo grandi aspettative. Non credevo che avrei visto qualcosa di vero, di spontaneo. Ho dovuto ricredermi invece, fin da subito. Seppure la città vecchia sia stata completamente ricostruita, anche a causa dell’incendio cui accennavo, ed è nuovo di zecca, al di là dei lavori in corso in alcune aree, non manca di un certo fermento. Non mi riferisco all’andirivieni dei turisti, locali o come me che sono arrivati da lonatano (a dire la verità ad ottobre ce n’erano ben pochi!), ma a quello della gente di Zhongdian, che vive lì da ben prima che nascesse Shangri-la.

Risaliti i gradini che portano al Tempio Guishan, ho subito notato la ruota di preghiera, la più grande esistente al mondo. Di forma cilindrica, completamente dorata e minuziosamente intagliata, era impossibile non vederla. Si muoveva o meglio veniva mossa da tante donne, che dovevano essere della minoranza tibetana che vive nello Yunnan, proprio a Shangri-la. Man mano che procedevano, facendo ruotare in senso orario la ruota di preghiera appunto, recitavano i mantra, nella speranza – credo – di un karma positivo. Mi ha colpita molto questa pratica, che non avevo mai visto prima. E mi ha colpita molto anche il fatto che le donne che ho incontrato fossero tutte piuttosto anziane.

Ci ho messo un po’ a capire in che direzione andare per raggiungere il Tempio dei Cento Polli. Un vicolo, poi l’altro, poi sono tornata indietro, fino ad uscire dal centro cittadino, per ritrovarmi su una sorta di sentiero. Ad un certo punto, ho trovato la strada seguendo le bandierine di preghiera, che sventolavano, colorate, quasi a volermi guidare fin dove volevo arrivare.   

Dietro di me, solo due donne, anch’esse di una certa età. Salivano a fatica, poiché man mano che si procedeva, aumentava la pendenza. Anche io, a dire la verità, sentivo la fatica e mi chiedevo come potessero farcela, anche se la distanza da percorrere non era poi così importante.  

Una volta in cima ho subito avvertito uno strano odore. C’era del fumo. Probabilmente stavano bruciando bastoncini di incenso, ma anche altro, altre offerte. Una nuvola bianca sembrava avvolgere il tempio. Riuscivo però a vedere tutt’intorno: montagne ocra, punteggiate da macchie verdi, da un lato, mentre dall’altro Shangri-la che sembrava estendersi ben oltre il centro storico, come una qualsiasi città cinese.

Quando sono tornata sui miei passi era ormai ora di pranzo ed il mio stomaco stava iniziando a brontolare. Volevo mangiare ancora la carne di yak, magari preparata in modo diverso rispetto a quella che avevo assaggiato la sera prima. Trovato un ristornate, sul menù i miei occhi sono subito caduti su dei ravioli ripieni appunto di carne di yak e su quelli, dunque, ho puntato. Che dire? Ottimi!

Nel pomeriggio mi aspettava il pezzo forte, il Ganden Sumtseling Gompa. Durante i miei viaggi in Asia ho avuto modo di entrare in moltissimi luoghi di culto. Questo senz’altro non lo dimenticherò più. La sua architettura mi è parsa così lontana da ciò che avevo visto fino a quel momento, al contempo sobria e sfarzosa, a seconda della prospettiva. Per non parlare dell’atmosfera che vi si respira, davvero sacrale; c’era qualche viaggiatore come me, ma all’interno del monastero ho visto soprattutto monaci.  

Arrivata alla fine di quel primo giorno a Shangri-la davvero soddisfatta, ho deciso che mi sarei fermata un giorno in più e che avrei affrontato una bella biciclettata intorno al Napa Lake, sul quale sorgono diversi villaggi tibetani. Il percorso circolare, di circa 35km, si è rivelato piuttosto semplice, anche perché per lo più in piano. Ciò non significa tuttavia che l’ambiente nel quale mi sono venuta a trovare non mi abbia regalato delle belle sorprese.

shangri-la yunnan cina
shangri-la yunnan cina
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Il lago era piuttosto paludoso, ma sulle sue sponde ho scorto cavalli, simpatici maialini e persino degli yak. Mi sono trovata nel bel mezzo di qualche villaggio tibetano, di quelli composti da una decina di case e null’altro, imbattendomi nelle pochissime persone che abitano da quelle parti.  Ciò che ho più apprezzato è la quiete e l’isolamento dei luoghi che ho attraversato, lontani da qualsiasi forma di caos, lontani da tutto ciò che la modernità ha portato anche a Shangri-la.  

Nei due giorni trascorsi a Shangri-la ho respirato aria di Tibet. Grande era il desiderio di muovermi in una direzione diversa da quella che avrei dovuto prendere, per andare a Kunming prima e ad Hong Kong poi, perché erano trascorsi già trenta giorni ed il mio visto stava scadendo.

Mi sarebbe piaciuto andare a Lhasa e mi piacerebbe tutt’ora. La necessità di dover ingaggiare una guida per muovermi, per non parlare dei costi che la cosa implica, allora mi hanno incoraggiata a rimanere sul percorso che avevo in mente e oggi mi frenano dall’intraprendere un viaggio in quel territorio che tanto mi affascina.

<<Ciao Zhongdian!>>, ho detto prima di partire, assolutamente convinta che il fenomeno Shangri-la non esita, nella speranza che non decolli mai…  

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”In un’epoca in cui viaggiare è prerogativa di molti, credo che sia ancora possibile percorrere vie sconosciute, rendendole solo nostre: sono convinta infatti che oggi le grandi esplorazioni debbano essere anche e soprattutto interiori.”