Il tempo a Jeonju e Busan è trascorso, nell’entusiasmo che mai avrei pensato potesse darmi la Corea del Sud, uno di quei Paesi che ho scelto un po’ per caso, senza grandi aspettative. Giunta a Gyeongju, già mentre scendevo dal autobus, non avevo dubbi sui giorni a venire: anche quella città aveva tanti piccoli, grandi regali per me, da scartare, uno dopo l’altro.
La Homo Nomads Guest House è stato il primo di quei regali. Quando ho lasciato la stazione e mi sono messa in cammino per cercarla, improvvisamente, mi sono resa conto di trovarmi in un quartiere fatto di case di un tempo, nello stile tradizionali. Sapevo quindi che c’ero quasi, che ero vicina a trovarla, perché avevo prenotato per i successivi quattro giorni un posto letto proprio in un hanok.
Appena sono arrivata la signora che gestisce la struttura mi ha accolta e mi ha spiegato tutto ciò che dovevo sapere, dalle regole della casa, che si è rivelata davvero molto caratteristica, a ciò che avrei potuto fare a Gyeongju, offrendomi il suo aiuto qualora ne avessi avuto bisogno in quel momento o sucessivamente. Ecco, la gentilezza e la disponibilità coreana non sono certo seconde a quelle giapponesi e in quel momento ormai ne avevo la certezza!

Già nel pomeriggio ho raggiunto la zona centrale di Gyeongju ed ho scartato un altro dei regali che la città aveva da offrirmi. All’apparenza erano colline quelle che potevo scorgere, tante belle collinette verdi, alte, basse e dalle forme più svariate. Sapevo bene tuttavia che si trattava di tumuli, di tombe reali, alcune delle quali – quelle precedenti all’avvento del Buddismo nel Paese – ricchissime di tesori.
Camminavo, spensierata, godendomi il paesaggio, quel paesaggio modellato secoli prima, spingendomi fino all’osservatorio astronomico, che a quanto pare è il più antico del continente. E così poi sono arrivata al Tumuli Park, dove ho finalmente scoperto qualcosa di più su quello che stavo vedendo ed ho persino avuto modo di entrare in una di quelle tombe che custodiscono i corpi degli esponenti della dinastia Silla. Ero sulla via del ritorno, su un sentiero che si snoda tra campi di cotone, quando il sole ha tinto la città di rosso, regalandomi un magnifico tramonto.
Il mattino seguente ho deciso di andare fuori città. La prima tappa è stata Bulguksa, che ho raggiunto in autobus. Il tempio Bulguk-sa (per l’appunto!) è meravigliosamente immerso in un ampio parco che a fine ottobre aveva ormai assunto le più calde tonalità autunnali, nel quale non ho potuto fare a meno di perdermi, quasi ammaliata dal foliage. Sono giunta ai piedi del complesso lentamente. E, sempre con calma, aggirandomi al suo interno, ho cercato di coglierne l’essenza, in quanto luogo di culto, in quanto massima espressione dell’architettura Silla ovvero quella del periodo dei re sepolti nei tumuli che avevo visto il giorno precedente a Gyeongju.
Quando la folla ha iniziato a farsi sentire ho deciso di mettermi in cammino, addentrandomi nel bosco, per raggiungere Seokguram, una grotta artificiale che custodisce una statua del Buddha. Sul sentiero, di poco più di tre chilometri, solo qualche coreano, oltre a qualche scoiattolo, di quelli piccoli, striati, che saltellavano da un ramo all’altro. Al termine del percorso, sul fianco della collina, ho immediatamente scorto quella che mi è parsa una tomba reale, simile a quelle che scolpiscono il paesaggio di Gyeongju. E così ho capito che ero arrivata, che quello era il secondo regalo di quel giorno!


Di ritorno a Gyeongju, nel pomeriggio, ho deciso di andare al museo di storia della città. Mentre mi aggiravo tra le sale, si è avvicinata una signora: mi ha chiesto se per caso volessi prendere parte alla visita guidata in inglese, tra l’altro gratuita, che sarebbe iniziata di lì a cinque minuti. Non nego che ho accettato molto volentieri il suo invito.
Non ero l’unica a partecipare, ma oltre a me c’era solo Shanae, una ragazza australiana di 25 anni che si era laureata da poco e, prima di compiere i primi passi nel mondo del lavoro, ha deciso di prendersi un po’ di tempo per viaggiare: in 6 mesi avrebbe infatti attraversato diversi Stati asiatici, per poi tornare a Melbourne.
Parlando, è saltato fuori che Shanae stava alla Homo Nomads Guest House, come me. Abbiamo dunque deciso di organizzare insieme qualcosa per il giorno seguente, che entrambe avremmo trascorso ancora a Gyeongju.
E’ così che è arrivato il momento del trekking sul monte Namisan. Avevamo pensato di andare per conto nostro, ma la proprietaria della Guest House ci ha detto che con una telefonata avrebbe potuto verificare se ci fosse una guida disponibile ad accompagnarci. E la guida, volontaria, alla fine c’era, e si è rivelata una simpatica signora sulla cinquantina, in perfetta tenuta sportiva.
Il percorso – che abbiamo affrontato in compagnia anche degli olandesi Anika e Rick – si è rivelato relativamente facile e piuttosto interessante, non solo per gli scorci panoramici che rivela, ma anche per le rovine che si incontrano, tra le quali tantissime statue del Buddha, in mezzo alla vegetazione o scolpite nella roccia.

Più o meno a metà cammino siamo arrivati ad un monastero, giusto in tempo per il pranzo: ogni domenica i monaci che ci vivono offrono infatti una zuppa di noodles a chi come noi si trova a passare di lì.
Poi abbiamo proseguito e una volta in cima la guida ci ha consegnato delle cartoline, dicendoci che potevamo inviarne una ciascuno nel nostro Paese, tra l’altro a spese della Corea del Sud. Effettivamente, proprio lì, c’era una buca delle lettere ed ho deciso di scrivere a mia nonna, che ha ricevuto la cartolina un mese dopo il mio ritorno in Italia!
Anika e Rick hanno pensato di restare lì per un po’, mentre io e Shanae siamo tornate indietro con la guida. Eravamo tutti d’accordo comunque di rivederci per cena. E quale occasione poteva essere migliore per condividere un dakgalbi? Di cosa sto parlando? Di una specialità coreana, servita in modo senz’altro spettacolare e che definire piccante è un eufemismo!
La serata è trascorsa piacevolmente e si è conclusa con un arrivederci, poiché il giorno dopo tutti avremmo preso strade diverse: io sarei rimasta ancora in città, Shanae sarebbe ripartita per Seoul e Anika e Rick avrebbero raggiunto Haein-sa per prendere parte ad un temple stay program.
Gyeongju però aveva ancora un regalo in serbo per me, il villaggio di Yang Dong. Avevo pensato ad un’escursione di mezza giornata. Una volta lì però sono rimasta fino a sera. Il contesto rurale e la quiete che ho trovato hanno fatto si che io perdessi la cognizione del tempo, semplicemente passeggiando tra gli hanok.

Ho trascorso a Gyeongju anche il giorno seguente, cercando di vivere un po’ la città, tornando sui miei passi, quelli che avevo fatto il primo giorno, muovendomi tra quelle colline che delineano un paesaggio senz’altro inconfondibile.
E poi me ne sono andata, sono tornata a Seoul, con tanti piccoli grandi regali, di quelli che non necessitano di tanto spazio nello zaino, anzi di quelli che non necessitano affatto di spazio, perché semplicemente si posano in quel cassettino della memoria che custodisce i ricordi…
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