Mi sono fatta accompagnare al Sundog’s in barca e li ho aspettato il minivan diretto a Lanquin, sorseggiando lo smoothie più buono di sempre. Ero preoccupata per le difficoltà che – almeno potenzialmente – mi aspettavano con Skype e Whatsapp: fino a quel momento ero infatti sempre riuscita a comunicare con Gianluca, ma sapevo che lì dove ero diretta la corrente elettrica era garantita solo in alcuni momenti della giornata e allo stesso modo anche tutte le comunicazioni che si basano su una connessione di rete. In realtà una soluzione, seppure un po’ costosa, ce l’avevo ovvero sms e qualche breve telefonata, ma speravo che la situazione non fosse davvero così difficoltosa.
L’arrivo a Lanquin era previsto intorno alle sette di sera, dopo cinque ore di viaggio. Ci è voluto però molto di più: se infatti fino a Coban la strada era in buone condizioni, oltre si è trasformata in un accidentato sentiero. In un primo momento ci siamo inerpicati su per le montagne, per poi scendere nuovamente. Ad un certo punto è pure iniziato a piovere ed il tracciato ha quasi assunto l’aspetto di un torrente. E così una volta calato il sole abbiamo iniziato a muoverci a passo d’uomo. Mentre a stento proseguivamo nell’oscurità è sbucato un altro mezzo, che procedeva nella direzione opposta alla nostra: siamo quindi stati costretti ad una manovra da paura con tanto di marcia indietro in salita, sgommate e nuvole di fumo bianco che fuoriuscivano dalla marmitta.
Giunta a Lanquin, non era finita: ho infatti scoperto che l’ostello che avevo prenotato, a Semuc Champey, distava altri 45 minuti, sempre su quella strada. Una volta a destinazione non riuscivo a credere di essere finalmente arrivata e prima di addormentarmi, sfinita, non ho potuto fare a meno di chiedermi se fosse davvero valsa la pena affrontare una tale impresa.
Solo il giorno dopo ho capito che ero nel Guatemala che stavo cercando, al contempo rurale ed esotico. Al mio risveglio, mi è bastato dare un’occhiata fuori dalla finestra: potevo scorgere tante colline ricoperte da campi di mais e piante tropicali, oltre a qualche torrente. Nonostante il panorama fosse meraviglioso, il cielo azzurro ed il tiepido sole mi hanno spinta a prepararmi e finalmente ad uscire, per scoprire cosa potesse regalarmi quel luogo.
Mentre salivo e scendevo su quelle colline, ho incontrato due bambini, incuriositi dal fatto che mi stessi avvicinando alla loro casa. Improvvisamente, tutti sorridenti, hanno iniziato a correre verso di me, per salutarmi e per poi pormi mille domande. Poco dopo sono apparsi anche i genitori che mi hanno invitata a sedere con loro, con il nonno ed un maialino comodamente sdraiato in cortile.
Solo nel pomeriggio mi sono quindi spinta sino alle cascate, quelle in mezzo alla giungla che formano delle ampie piscine naturali di un intenso colore turchese. Prima di allora poche volte mi era capitato di trovarmi al cospetto di una tale meraviglia della natura: una volta lì non avevo parole per esprimere la bellezza di ciò che stavo ammirando, se non una miriade di wow. Ho finito quindi per tornarci anche il giorno dopo, per rivederle un’ultima volta prima della mia partenza.
Non mi ero mai trovata in un luogo come Semuc Champey prima di allora, anzi non mi ero mai trovata in un luogo isolato come Semuc Champey: un viaggio infinito per arrivarci e per comunicare con il resto del mondo solo una lentissima connessione wi-fi, tra l’altro esclusivamente dalle 9 alle 10 e dalle 18 alle 23. E’ anche vero d’altra parte che non mi sono mai trovata in un paradiso come Semuc Champey, che probabilmente è tale perché non è attraversato da un’autostrada e non è deturpato da decine e decine di hotel che offrono altrettante postazioni internet.
Chi è abituato ad essere sempre connesso – non solo al mondo virtuale – forse fa un po’ fatica ad immaginare Semuc Champey o meglio ad immaginare se stesso a Semuc Champey, dove non ci sono automobili, dove non c’è la metropolitana, né passano autobus ogni mezz’ora ed i cellulari sono insolitamente silenziosi. E lì, a piedi, le dita abbandonano quel movimento quasi spasmodico, tipico di chi ha fretta di rispondere ad un messaggio e poi ad un altro ancora.
Così, senza neanche rendermene conto, a Semuc Champey sono tornata ad ascoltare me stessa, lasciando il mio avatar in balia della rete, almeno per un po’. Tutto questo è accaduto perché mi sono trovata letteralmente fuori dal mondo ed in particolare dal mondo di oggi, fatto di comunicazioni incessanti.
Non mi è pesato stare in mezzo al nulla: in fondo amo stare in mezzo al nulla. E neppure ho avvertito la mancanza dei social e delle relative notifiche, che avvengono sempre in tempo reale. E’ stato difficile invece non riuscire a sentire la voce di Gianluca, se non per qualche minuto al telefono. Se ho capito una cosa a Semuc Champey è che, se ho una dipendenza, quella non è da Facebook, Twitter o Google+, ma da Skype e Whatsapp.
Chissà fino a quando Semuc Champey rimarrà così… E quando non esisteranno più luoghi che hanno il potere di riportarci alla realtà?




Vi lascio anche questo link: Semuc Champey, ovvero il paradiso
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